La scelta del costume

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Foto di Bruno Cicciarello

Un’amicizia nata a scuola, quando per ogni lettera dell’alfabeto dovevano trovare il disegno giusto fra tanti cartoncini. Un’amicizia arrivata fino all’università. Un’amicizia cresciuta nel quartiere periferico di una cittadina dell’Inghilterra centrale, dove graziose case prefabbricate che sembrano specchi le une delle altre si adagiano su giardini e fronteggiano aree comuni dove corrono cani, e poco lontano trafficate statali si snodano in sagome da otto. Un’amicizia con una stessa trama di amici, film, libri, cazzate, boyfriend, incomprensioni, smalti per unghie, depressioni, stratosferiche felicità, gite nelle spiagge del Galles, desideri, e soprattutto un’idea del futuro.

Se lo immaginavano il futuro, se lo consigliavano il futuro, se lo rinfacciavano a volte per celare il dispiacere di separarsi, desiderose com’erano di un altrove dove lavorare, la Francia per Eleonore, la Danimarca per Sally.

Superare l’esame di sociologia al primo colpo e così bene non era stata cosa da poco, era un esame tosto di quelli che fanno sbarramento, con la docente aguzzina, assetata di cinismo e di una gioventù mai vissuta. La sera stessa erano a casa di amici a spassarsela e festeggiare l’esame. Eleonore aveva bevuto qualche birra in più e dopo un paio d’ore uscì a prendere una boccata d’aria. Aveva appena smesso di piovere. L’aria sapeva di terra umida e vento. Uscì dal giardino e fece due passi davanti a casa.

Erano passati cinque anni da allora. Sally viveva in Danimarca, proprio come si era immaginata il futuro e lavorava in una compagnia teatrale. Eleonore, invece, un futuro non ce l’avrebbe mai avuto, perché dentro, in casa, alla festa non c’era più tornata. Massacrata a caso, e il caso scelse lei, era stato detto. Il caso sfrecciava in macchina, con l’idea di svuotare sperma e rabbia, e insieme se possibile. Si era fatto conoscere da lei nel quartiere, il caso, andando al lavoro, ciao come va, come è, tutto bene, lavoro? E anche quella sera probabilmente le aveva fatto qualche domanda simile. Eleonore cercò di ribellarsi subito al caso, con tutta la forza che aveva. Ma il caso afferrò una bottiglia di Scotch e la colpì violentemente in testa, si svuotò sopra di lei, la strozzò e la buttò giù dalla macchina, la faccia insanguinata affondata nell’erba dietro un capannone.

Erano passati cinque anni da allora e Sally scelse finalmente quel costume, il trucco e un monologo e diede voce a Eleonore su quel palco di fronte al pubblico di una piccola comunità. Non chiamatelo “caso” diceva il testo, non c’è un caso ma una volontà, non c’è una semplice intemperanza ma un’idea aberrante. E l’altra idea aberrante è chiamarlo caso. E lo diceva con le parole del teatro che sanno andare all’assalto di coscienze troppo tranquille, di chi si era sempre messo al riparo dietro al caso. Oppure dei benpensanti, come quelli che avevano visto Eleonore ondeggiare un po’ troppo brilla in minigonna e calze a rete dopo qualche sera sgangherata, e avevano detto ma in fondo allora vuole essere una calamita.

Sally scelse di mettersi un fiocco in testa, perché Eleonore li amava molto, ne aveva una parete della stanza piena.

Il pubblico dentro la commozione rifletteva. Gli applausi furono scroscianti. Scesa dal palco, Sally guardava gli spettatori alzarsi. Alcuni discutevano appassionati. Inebriata di nicotina e di ricordi era certa che in qualche modo Eleonore da quel momento avesse avuto un futuro.


 

Copyright © 2018, Silvia Dacomo
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