Beatty, Nevada

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Beatty, Nevada (ottobre 2017, foto di Silvia Dacomo)

Beatty, Nevada.

Resistete. Non cercate Beatty su Google Maps, almeno per il tempo di lettura di queste righe. Provo a raccontarvelo. È un insediamento di minatori e agricoltori a mezz’ora di auto dalla Death Valley (California). È anche un luogo di tappa, se le strutture ricettive del parco sono al completo. Ci sono stata di passaggio alla fine di ottobre. Certe volte è come se mi trovassi ancora là.

Le abitazioni sono per lo più trailer home, e si avvista anche qualche casa costruita in pannelli di fibre di legno. Ce n’è una senza neppure il rivestimento, è di fatto una casa di compensato, il non finito della desolazione economica. Il giardinetto roccioso che la circonda, pieno di attrezzi da lavoro arrugginiti, è però il giardinetto della rivincita esistenziale curato com’è, abitato da pupazzi e animali in legno, forse costruiti da chi ci abita. Improbabili e kitsch, esprimono un desiderio irrefrenabile di vita, di bellezza a loro modo, di rimozione immaginaria della solitudine. Facciamo la provvista di acqua da tenere in macchina nell’unico supermercato della catena Family Dollar i cui giganteschi metal detector sono ricoperti di veli e teschi in vista di Halloween. Ci sono tonnellate di merci, e di offerte speciali, ma il supermercato è vuoto dell’umanità che imbraccia carrelli. La ragazza alla cassa trasmette dal suo sguardo tutto il blues che è stato composto nella storia. Anche se lei è bianca, molto giovane e i suoi occhi azzurri sono stretti in un viso gonfiato dal cibo spazzatura o dall’ingratitudine dell’amore.

A cena evitiamo i posti ristoro delle grandi catene e andiamo in un locale che trabocca di storia locale, scritte buffe e naturalmente. Anche lì zucche e fantasmi ovunque. Ordiniamo due chili e due birre, e la cameriera ci chiama “Honey”. Il chili è meraviglioso, con le spezie ben calibrate e il gusto della buonissima carne non è trucidato da condimenti assassini. Si avvicina un anziano cowboy che fa l’agricoltore e nel tempo libero promuove spettacoli country organizzati dalla associazione locale di cui fa parte, tutti amici del posto che si divertono un sacco a suonare dice. E ci informa del concerto dell’imminente fine settimana.

“Grazie ma venerdì non ci saremo, siamo qui solo di passaggio, un viaggio lungo”, “Capisco e dove state andando?” ci chiede cordiale, con la mano sempre appoggiata alla fondina del suo abito western, “Siamo tornati qui dopo tanti anni, e visiteremo di nuovo la Death Valley”, “Ah, be’ allora sapete già che dovete portarvi sempre dietro un sacco di acqua, i ranger non insistono mai abbastanza… lo sapete che ogni tanto raccolgono qualche viaggiatore… ne hanno trovati morti altri due, l’auto li aveva mollati in mezzo al niente non so dove e il cellulare non prendeva. Invece quest’estate altri due si sono salvati, ma solo perché hanno incendiato la ruota di scorta di notte per rendersi visibili. Se vi capitasse di rimanere in panne di giorno, state dentro l’auto… qualcuno vi troverà” dice scrollando le spalle. A quel punto io chiedo “Ma che differenza fa un po’ di lamiera, tanto l’auto diventa un forno, c’erano 53 gradi Celsius là fuori otto anni fa, me lo ricordo bene”, lui mi guarda disincantato poi aggrotta le sopracciglia e dice “Be’, il tetto dell’auto è pur sempre un tetto, e comunque è meglio che niente! E, for God’s sake portatevi degli snacks”. Disegnatevi nella mente un uomo dalla corporatura imponente, baffuto, in una vignetta tipo western, nel fumetto fategli dire “snacks”, e accentuate parecchio la pronuncia, e poi voltatevi, come noi due abbiamo appena fatto. Alle nostre spalle c’è una saletta con il bancone bar, gestito da una vecchia signora (la moglie del cowboy) che spilla birre e bourbon. Ci avviciniamo al bancone e paghiamo la cena. E seduta al bancone c’è lei.

Sotto un cappello azzurro da cowgirl, c’è quel  volto lì, quello che vedete nella foto. Segnato da quasi tutto. Argenti di bella foggia alle dita, unghie curate ma senza smalto, una camicia fantasia, ai  piedi calzettoni e sandali. Fuma e ha lo sguardo sornione e rappacificato con l’esistenza. Ci osserva e beve un sorso. “Abbiamo notato stando in giro che in America ormai ci sono divieti ovunque, qui invece fumate senza problemi”, le domanda con una risatina lui avvicinandosi alla cassa. “Ma da dove arrivate voi due?” chiede lei, “Da San Diego”. A quel punto la donna alza il bicchiere in segno di brindisi e dice con la voce che slitta su una risata grattata di nicotina “You know… guys… You’re in Nevada now, not in California anymore”. Siete in Nevada ormai, ragazzi, mica in California! Il suo orgoglio è al massimo. Si presenta, si chiama Janis. Poi mi dice “La tua felpa è molto bella”, “È low cost” rispondo, “Low quanto?” chiede lei, “Low 20 euro”, le facciamo un’approssimativa conversione in dollari. Ok, non le pare troppo. Pizzica un pezzo di tessuto tra indice e pollice e dice “Cavoli, è veramente bella” e io le dico “E a me piace molto il tuo cappello”, lei fa una risata e se lo sistema, si sposta i capelli ai lati. Poi mi chiede “Ma che ne pensi, ti piace questo villaggio?”. Se dicessi “interessante” mi sentirei vigliacca. ‘Interessante’ talvolta è l’aggettivo dell’ipocrisia, dico “Sì mi piace”, perché forse è la verità, perché è un posto assolutamente pazzesco. “Di cosa vive la gente qui?” domando, “Di miniere, di agricoltura, di qualche viaggiatore che ci fa una tappa prima di rimettersi in marcia per chissà dove” poi ci guarda tutti e due e chiede “Non lo trovate bellissimo?”,  mentre il suo entusiasmo fa a pezzi la sua fragilità. Risposta affermativa di entrambi. Si volta verso la proprietaria dietro al bancone e le dice “Ma hai sentito? Hai sentito? A loro piace questo posto, a loro che arrivano dall’Italia!”. E io consapevole del fatto che sto senz’altro per fare una domanda ovvia le chiedo “Janis, ma a te piace questo posto, ti piace vivere qui?”, “Tantissimo, mi piace sempre anche quando nevica! Sai è bellissimo anche a Natale, noi ci conosciamo tutti qui, siamo tutti amici, ci aiutiamo e questa signora – dice indicando la proprietaria dietro al bancone – e suo marito la notte di Natale mettono sul tavolo laggiù un piccolo regalo per ciascuno di noi. È una cosa incredibile oggi come oggi sentirsi considerati così”. La proprietaria dietro al bancone sembra intenerirsi per una frazione di secondo, è una sfumatura, è la versione femminile di Fat Moe che in Once Upon a Time in America, C’era una volta in America impacchetta il pasticcino, la Charlotte russe, per Patsy Goldberg. Continua a trafficare trafelata con birre e bicchieri e poi si prende una pausa e finalmente ci sorride e  io a quel punto chiedo se posso scattare loro una foto. Certo, che domande! Non chiedo un sorriso da cartolina, non ce n’è bisogno.  Fuori dal locale ascoltiamo la gente chiacchierare, non di baseball, ma del villaggio. È la fine della giornata per i lavoratori di Beatty, Nevada.

Il giorno dopo, facciamo colazione in un vecchio diner dipinto di azzurro. Amo i diner (stanno sparendo, non è una novità), e come la maggior parte dei diner, anche questo trabocca di calore, se calore significa non sentirti mai a disagio ad attaccare discorso con i vicini di tavolo, se significa essere in un locale le cui pareti non si sottraggono alla narrativa del luogo con qualche targhetta in metallo, poster popolarissimi, fotografie paesaggistiche scolorite, qualche articolo di giornale incorniciato, se significa cibo semplice servito in piatti non di plastica. È lì che conosciamo Jim, che dopo due parole ci invita a trasferirci al suo tavolo. Un ottantaquattrenne dell’Oregon che ha lavorato per una vita come muratore specializzato. Che ci fa a Beatty, gli chiediamo. Viaggia in camper con sua moglie! Non gliene importa nulla se ha ottantaquattro anni, lui viaggerà con lei fin che ce la farà. Ma dove vanno? Un po’ dappertutto. E cita diversi stati che non sono propriamente confinanti. Macinano migliaia di miglia, vedono cose bellissime. Eloquio brillante, ironia da spacciare, ci chiede dell’Europa. Di madre londinese, lui in Europa non c’è mai stato e ridendo conferma che non ci andrà mai, gli piace essere realista dice. “Mia moglie, be’… la lascio dormire, preferisce alzarsi un pochino più tardi, sapete… l’età”. Intanto ordiniamo le colazioni, noi si va di pancake e caffè ovviamente, lui ordina un piatto combo con omelette di verdure soffritte e cereali. Ci chiede quali siano le nostre prossime mete. Gli stati sul Pacifico sono tra i più progressisti, la politica la decidono California e New York, in mezzo è come se a volte non ci fosse niente, asserisce, mentre la cameriera ci versa forse per la terza volta infinito caffè. Scopriamo che è un avido lettore di fiction, ed è dispiaciuto di non conoscere altre lingue oltre all’inglese. Non ha avuto tempo di impararle dice, troppo lavoro e quattro figli. Ama viaggiare in America in assoluta autonomia, dopo tutto, dice, è facile viaggiare qui anche da vecchi, e poi a lui i viaggi organizzati non possono proprio interessare. Ci offre la colazione, insistiamo per il contrario ma non c’è verso, “Benvenuti in America allora, anche questa volta come tutte le vostre altre!”, dice afferrando il conto. Possiamo fare una foto? Ma certo che domande!

Beatty, Nevada. Incrocio di esistenze, lontane, lontanissime dai confini dall’Ego.

Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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A un certo punto nella storia l’Oregon e la California settentrionale devono avere avuto un amplesso bellissimo. Sì. Ed è proprio  lì, dove si incontrano, che è nato un certo mondo selvaggio pieno di grandi mammiferi e dove foreste smisurate sopravvivono e dove vedi anche conifere piccole come un soldo di cacio con il cartellino della data di innesto “2008”, “2009” e capisci quanto ci mette una foresta a essere rimpiazzata.

È lì, nei boschi di felci umide attraversate da lance di sole (ma anche nelle pianure e persino lungo la Highway 1), che si possono incontrare gli elk, o cervi di Roosevelt, la specie di cervide seconda per grandezza soltanto all’alce. La cartellonistica invita a essere molto prudenti, a non avvicinarsi  (non più di 75 yards circa 70 metri) a questi animali.

Non è strano che gli animali selvatici non amino essere fotografati, e non è strano che non siano molto socievoli. Non è strano, e dovrebbe essere molto noto, ma la segnaletica stradale ed escursionistica deve fare il suo lavoro. E in questo caso lo fa in modo curioso e vi spiego perché.

Per il resto della fauna, orsi compresi, i disegni della segnaletica stradale nel West americano non rappresentano quasi mai (direi mai) la possibile reazione dell’animale, eppure per l’elk in alcuni sentieri funziona così come vedete in foto: cartello romboidale giallo ed escursionista quasi incornato!

Un incontro problematico di notte con un orso l’avevo avuto otto anni fa in un campeggio molto isolato nel parco di Yosemite in California, dove avevo anche firmato una liberatoria al momento della registrazione del tipo “sei consapevole che la zona è popolata da un gran numero di orsi e che il comportamento imprevedibile  ecc.”. Non è divertente sentire a due metri da te il ruglio dell’orso, e sentire l’orso che si sposta accanto a te nel buio pesto mentre stai andando ai bagni (alle 22.30 il campeggio staccava i generatori, buio totale, la torcia poteva essere rivolta solo verso  terra per via degli orsi). E non c’è niente, ma proprio niente di piacevolmente avventuroso, constati solo che le tue paure finiscono lì una volta per tutte, in una paura assoluta, ancestrale. Quella della fiera che ti sbrana.

Quest’autunno, per nessuna ragione, volevo lasciarmi condizionare da quella esperienza. Una condizione, quella della paura, alla quale siamo esposti continuamente con il mito della sicurezza, in particolare negli Stati Uniti, dove per ogni, e dico ogni, cosa, esiste un cartello che avvisa. Avvisa, avvisa e avvisa.

Siamo sempre più avvisati, ma non siamo mezzo salvati, spesso solo più terrorizzati per cose, che con le dovute cautele ovviamente, non rappresentano imprese impossibili né al limite. Non c’è scritto non entrare, c’è scritto (c’è disegnato) che è sempre a tuo rischio e pericolo. Ma, tutta la nostra vita è a nostro rischio e pericolo, se vogliamo, e qui in fin dei conti stai entrando in un sentiero segnalato, sai che ci sono grandi animali, sai come comportarti, hai letto l’esauriente decalogo del ranger “cosa fare in caso di”. Il resto è natura.

Entriamo, di mattino presto, in questa foresta di sequoie e felci e tanto altro. È stato un bizzarro personaggio, di cui vi racconterò in qualche prossimo post, ad avercela segnalata. Non è una delle foreste di sequoie più famose, quelle le avevamo già visitate anni prima. Ma una foresta che ricalca l’immaginario più straordinario, con un sottobosco pazzesco. Qui ci poche gallerie dentro le sequoie, da questo punto di vista il rischio di selfie e di folla è più basso. Infatti non incontriamo meravigliosamente nessuno.

È lì che dopo due ore di cammino, nascosti da felci smeraldo che hanno assorbito tutta la pioggia dell’universo, spuntano un muso e un palco di corna incredibili. È un elk maschio, magnifico e soprattutto molto molto vicino a noi. Troppo vicino. Molto meno dei famosi settanta metri, sarà a meno di dieci. La distanza di sicurezza non esiste più. Ma, scusate, è mai esistita in un bosco? Ci ha visti, un po’ ci fissa, un po’ continua a guardare davanti a sé. Nel bosco solo noi, escursionisti entusiasti, ma pur sempre abituati a incontrare nella nostra regione solo cinghiali, caproni, caprioli, cervi (e molto raramente così da vicino). Lui resta fermo dov’è, ci tollera a malapena, ce lo fa capire, si sposta un poco.  Regna sovrano dentro un’immagine. Un’immagine che conserverò per tutta la vita, un’immagine che non ho consegnato alla macchina fotografica perché non ho voluto rischiare di compromettere la situazione. Leggi: perché è stato meglio andarsene.

Eppure, la cosa incredibile è che non avevo più paura. Neppure quando gli davo le spalle e tornavo indietro, a passo tranquillo. Davanti c’era questo sentiero, questo bosco che sembrava uscito da Avatar per dirla con un film, in fondo siam sotto le feste piene di gif. e jpg. di renne paffute da tutte le parti che hanno lasciato i loro boschi, ossia quelli del nostro inconscio caotico e meraviglioso, per trasportare regali in un mondo prevedibile e troppo conosciuto. E mezzo avvisato.

Nota*: foto scattate nella foresta del Fern Canyon (Northern California) e nell’area circostante a novembre 2017

 

Mono Lake

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Mono Lake

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Un mio lontano settembre. Mono Lake. California. Un lago salato, incastonato nella Sierra Nevada quasi al confine con lo stato omonimo. Le sponde ammantate dei gialli cespugli del “sagebrush” (Artemisia tridentata). Dolcissimo il loro profumo, e soave, blandiva la ruvida solitudine del luogo. Ruvida, nelle formazioni di lava solidificata dalle forme immaginifiche che fanno cercare somiglianze con tutte le cose conosciute. Ruvida, nell’acqua messa lì a riflettere e cancellare nel suo continuo incresparsi. E a far riflettere, con magnifica esattezza. Ruvida, nella storia dei nativi americani che diedero il nome al luogo. Panorama di bagliori liquidi.

Una lunga escursione, sotto il sole severo. Ti guardi intorno nel Mono Lake. E vedi il silenzio. Lo vedi. È dolcissimo, proprio come il profumo dei cespugli. Non tutti i luoghi naturali smisurati e insoliti emozionano così, ma per via di una vaga claustrofobia li apprezzo forse comunque. Però, qui, c’era ben altro. Sapere che in epoche lontane, forse antichissime, la Terra aveva avuto un silenzio definito. Fragrante di ambrosia.

 

Il mare in copertina

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Il mare in copertina

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Neil Young, On The Beach (1974)

All’epoca del vinile, il trentatré giri aveva, nello scaffale, la stessa dignità del libro. Di carta, senza contenitore rigido, ad esclusione dei cofanetti. Quella sagoma quadrata aveva la fortuna di essere grande abbastanza da essere facilmente memorizzata, e in seguito ben ricordata. Sempre in bella vista, anche quando dallo scaffale migrava per casa da una stanza all’altra. Quando prestavi un LP a un amico gli consegnavi un suono importante e insieme un’immagine che avevi già fatto tua. Il disco lo si ascoltava in compagnia, in casa. Si leggevano i titoli mentre si commentava durante l’ascolto, e tra una chiacchiera e l’altra la copertina girava fra tutti. Il brano era una traccia nascosta nei cerchi concentrici del vinile, solchi del tronco di un albero immaginario, a volte rigati e compromessi per sempre.

L’acqua non è stata, a mio parere, l’immagine preminente nelle copertine dei LP che hanno fatto la storia della musica della mia generazione. La storia delle copertine musicali è interessantissima, fatta com’è di incroci di idee, di contatti fra le persone più diverse per dare forma anche a concetti, fantasie, ideali, attitudini. E con un mercato, certamente, da voler conquistare.

Tra tutte le copertine che ritraggono il mare, questa dell’album On the Beach (1974), di Neil Young, è a mio parere, una delle più intriganti. Probabilmente perché non riesco a scollegarla dalla canzone, che considero nel suo genere un piccolo capolavoro. Il mare californiano di Santa Monica appare anonimo, potrebbe essere davvero qualunque luogo, non fosse per quella Cadillac sepolta. In una scena punteggiata di giallo, l’oceano non sembra suggerire risposte, né consolazioni a chi ci canta dell’asocialità, intesa come limite e non come scelta. Poi la fuga consapevole dalla città verso qualcosa di ineffabile, una necessità a cui non si riesce a dare un nome. E poi quel verso “Now I’m livin’ out here on the beach, but those seagulls are still out of reach” (trad. it.: adesso vivo sulla spiaggia, ma quei gabbiani sembrano ancora irraggiungibili). Ecco, i cliché restano fuori da questa poetica. Proprio come nella copertina che la rappresenta.