Manovre di passaggio

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Manovre di passaggio

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Lo scorrere dell’acqua nei canali. L’Inghilterra ne è piena, e l’apertura delle chiuse è narrazione di attesa, curiosità, passaggi. Sulla banchina, passanti e viaggiatori sono coinvolti. Sì, coinvolti. Per dare una mano e sentirsi partecipi di quel passaggio; per osservare e giudicare le manovre; per dire la propria e scansare la noia all’uscita dal lavoro.

A volte, due barche passano insieme. E non sono solo due barche che passano, sono spesso due realtà che si affiancano e forse non si sarebbero mai incontrate. Metafore straordinarie della vita, delle opportunità.

La barca con a bordo tutta la famiglia per il weekend, e la barca di chi con la barca ci lavora, trasporta oggetti, che sono rottami ma anche  ruote, piante, contenitori, cavi. E quindi spostamento, ossigeno, spazio, collegamento.

Una barca scura e pulita carica curiosità e distrazione ma anche l’attitudine control-freak del barcaiolo, l’altra confusione e oggetti materiali ed esperienza. Ma in un viaggio bisogna imparare sempre a fidarsi.

Così  mi narrò questa chiusa sul fiume Avon, nella Contea di Somerset.

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La vuoi una Fisherman’s?

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La vuoi una Fisherman’s?

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Mi dice che non si ricorda quando ha avuto inizio quella devozione. Io penso in Inghilterra (mi piace pensarlo) dove lei, bella bella, se n’era andata per qualche settimana in un soggiorno-studio presso una famiglia. I suoi racconti, durante il nostro primo anno di ginnasio, restituivano realtà a quella fantasia tutta iconografica di United Kingdom che ben avevo coltivato alle medie inferiori, complici la mia venerazione per i Beatles, alcuni telefilm indimenticabili, le foto di mio fratello, ben più grande di me, scattate nei numerosi viaggi lassù e in una Londra che oggi si fatica a pensare  sia mai esistita. Lontano e icastico il Regno Unito anche nei souvenir di allora, ovvero nelle latte colorate del celebre tè inglese che oggi si produce in Polonia, nei severi e robusti kilt intessuti nelle remote isole scozzesi, e nelle collane realizzate con cuoio e cilindretti di ceramica dipinta. Li conservo ancora.

Da che conosco questa cara amica – ormai sono trentasette anni (scrivere le cifre del tempo per esteso ha un suo brivido) – quel rito è una certezza. All’epoca poteva avvenire al cinema, durante una passeggiata per la città, dopo i pranzi fuori porta con i nostri amici e con i nostri fidanzati di allora. Lei apriva e apre la borsa, dove di solito c’era e c’è un intero kit – ma sparpagliato – per ogni evenienza (dal cerotto alle gocce per i suoi bruschi cali di pressione, dalla biro che funziona in qualsiasi catastrofe, al biglietto extra del bus, al burro di cacao), ed estraeva ed estrae un sacchettino di carta appiattito con il disegno di un peschereccio.

E poi la frase, nel suo tono fermo e cortese, mentre decapita sillabe nella sua parlata veloce: “La vuoi una Fisherman’s?” Debbo dire, in tutta onestà, che non amo molto né l’anice e neppure la liquirizia, e forse queste pastiglie non mi sono mai piaciute veramente, infatti penso di non averle mai comperate. Ma le accettavo (e accetto) ogni tanto, come accade nei piccoli riti delle grande amicizie. Sì, la caramella del pescatore in fondo era bizzarra con quella sua origine negli ostili marosi del Nord, creata come conforto al mal di mare nella pesca d’altura. Effettivamente, era davvero un sapore risoluto che rimandava a terre senza sole e acque furenti. L’immaginario dell’isola britannica non mollava, questa volta grazie a un aroma che cancellava davvero tutti gli altri.