Spume volanti in passeggiate oceaniche

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 Considero le spiagge dell’Oregon d’una maestosità rapace, che afferra e porta davvero lontano qualsiasi pensiero tu voglia trattenere. La mente butta giù le sue zavorre, mentre il vento ti sferza la faccia e la coscienza. Ed è su quei litorali  che si addensano a riva. Sembrano chiare d’uovo montate a neve. Sembrano batuffoli. Sono le spume dell’Oceano Pacifico, spume naturali rilasciate al largo dalle alghe e ricche di proteine. Pullulano e hanno sempre pullulato lungo i litorali selvaggi dell’Oregon e della California settentrionale (nulla a che vedere con le schiume provocate dall’inquinamento).

L’aria solleva questi soffici agglomerati e dà loro forme continuamente nuove, li respinge in mare, li incolla alla battigia, li soffia verso la parte più interna della spiaggia. Sulla riva le spume galleggiano, si sciolgono, si incollano, si ricompongono, e assorbono come spugne la luce del tramonto. Si rincorrono, fra piccoli uccelli che saltellano velocissimi. Un moto imponderabile e inaspettato.

Camminare su spiagge sconfinate è una delle attività all’aperto che preferisco, seconda solo al nuoto. In molti anni ho percorso centinaia e centinaia di chilometri a piedi, in paesi e regioni in cui queste spiagge vaste esistono e non conoscono stabilimenti. Spiagge libere per il corpo e la mente. In Marocco, Stati Uniti, Inghilterra, Scozia, Danimarca, Grecia, Andalusia. Anche in Sardegna, Corsica, Sicilia, fuori stagione o nei lidi poveri di strutture. E in tanti altri luoghi ho fatto lunghe passeggiate marine. È un modo fantastico per apprezzare la luce del giorno, rinfrescare la consapevolezza che siam qui per caso, per amore o per fatalità, accarezzati e abbandonati dalla natura. Indifferente a noi e magnifica. Come una spuma che vola.


 

Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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Renne paffute ma niente scherzi con l’elk

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A un certo punto nella storia l’Oregon e la California settentrionale devono avere avuto un amplesso bellissimo. Sì. Ed è proprio  lì, dove si incontrano, che è nato un certo mondo selvaggio pieno di grandi mammiferi e dove foreste smisurate sopravvivono e dove vedi anche conifere piccole come un soldo di cacio con il cartellino della data di innesto “2008”, “2009” e capisci quanto ci mette una foresta a essere rimpiazzata.

È lì, nei boschi di felci umide attraversate da lance di sole (ma anche nelle pianure e persino lungo la Highway 1), che si possono incontrare gli elk, o cervi di Roosevelt, la specie di cervide seconda per grandezza soltanto all’alce. La cartellonistica invita a essere molto prudenti, a non avvicinarsi  (non più di 75 yards circa 70 metri) a questi animali.

Non è strano che gli animali selvatici non amino essere fotografati, e non è strano che non siano molto socievoli. Non è strano, e dovrebbe essere molto noto, ma la segnaletica stradale ed escursionistica deve fare il suo lavoro. E in questo caso lo fa in modo curioso e vi spiego perché.

Per il resto della fauna, orsi compresi, i disegni della segnaletica stradale nel West americano non rappresentano quasi mai (direi mai) la possibile reazione dell’animale, eppure per l’elk in alcuni sentieri funziona così come vedete in foto: cartello romboidale giallo ed escursionista quasi incornato!

Un incontro problematico di notte con un orso l’avevo avuto otto anni fa in un campeggio molto isolato nel parco di Yosemite in California, dove avevo anche firmato una liberatoria al momento della registrazione del tipo “sei consapevole che la zona è popolata da un gran numero di orsi e che il comportamento imprevedibile  ecc.”. Non è divertente sentire a due metri da te il ruglio dell’orso, e sentire l’orso che si sposta accanto a te nel buio pesto mentre stai andando ai bagni (alle 22.30 il campeggio staccava i generatori, buio totale, la torcia poteva essere rivolta solo verso  terra per via degli orsi). E non c’è niente, ma proprio niente di piacevolmente avventuroso, constati solo che le tue paure finiscono lì una volta per tutte, in una paura assoluta, ancestrale. Quella della fiera che ti sbrana.

Quest’autunno, per nessuna ragione, volevo lasciarmi condizionare da quella esperienza. Una condizione, quella della paura, alla quale siamo esposti continuamente con il mito della sicurezza, in particolare negli Stati Uniti, dove per ogni, e dico ogni, cosa, esiste un cartello che avvisa. Avvisa, avvisa e avvisa.

Siamo sempre più avvisati, ma non siamo mezzo salvati, spesso solo più terrorizzati per cose, che con le dovute cautele ovviamente, non rappresentano imprese impossibili né al limite. Non c’è scritto non entrare, c’è scritto (c’è disegnato) che è sempre a tuo rischio e pericolo. Ma, tutta la nostra vita è a nostro rischio e pericolo, se vogliamo, e qui in fin dei conti stai entrando in un sentiero segnalato, sai che ci sono grandi animali, sai come comportarti, hai letto l’esauriente decalogo del ranger “cosa fare in caso di”. Il resto è natura.

Entriamo, di mattino presto, in questa foresta di sequoie e felci e tanto altro. È stato un bizzarro personaggio, di cui vi racconterò in qualche prossimo post, ad avercela segnalata. Non è una delle foreste di sequoie più famose, quelle le avevamo già visitate anni prima. Ma una foresta che ricalca l’immaginario più straordinario, con un sottobosco pazzesco. Qui ci poche gallerie dentro le sequoie, da questo punto di vista il rischio di selfie e di folla è più basso. Infatti non incontriamo meravigliosamente nessuno.

È lì che dopo due ore di cammino, nascosti da felci smeraldo che hanno assorbito tutta la pioggia dell’universo, spuntano un muso e un palco di corna incredibili. È un elk maschio, magnifico e soprattutto molto molto vicino a noi. Troppo vicino. Molto meno dei famosi settanta metri, sarà a meno di dieci. La distanza di sicurezza non esiste più. Ma, scusate, è mai esistita in un bosco? Ci ha visti, un po’ ci fissa, un po’ continua a guardare davanti a sé. Nel bosco solo noi, escursionisti entusiasti, ma pur sempre abituati a incontrare nella nostra regione solo cinghiali, caproni, caprioli, cervi (e molto raramente così da vicino). Lui resta fermo dov’è, ci tollera a malapena, ce lo fa capire, si sposta un poco.  Regna sovrano dentro un’immagine. Un’immagine che conserverò per tutta la vita, un’immagine che non ho consegnato alla macchina fotografica perché non ho voluto rischiare di compromettere la situazione. Leggi: perché è stato meglio andarsene.

Eppure, la cosa incredibile è che non avevo più paura. Neppure quando gli davo le spalle e tornavo indietro, a passo tranquillo. Davanti c’era questo sentiero, questo bosco che sembrava uscito da Avatar per dirla con un film, in fondo siam sotto le feste piene di gif. e jpg. di renne paffute da tutte le parti che hanno lasciato i loro boschi, ossia quelli del nostro inconscio caotico e meraviglioso, per trasportare regali in un mondo prevedibile e troppo conosciuto. E mezzo avvisato.

Nota*: foto scattate nella foresta del Fern Canyon (Northern California) e nell’area circostante a novembre 2017